Il quando e il dove

Per una costruzione del tempo musicale

“Non si dà infatti né soluzione possibile né fondamentale sviluppo della questione del tempo restando ancorati ai binari di una concettualizzazione stricto sensu filosofica.”
In Marramao Giacomo (1990), Minima Temporalia. Spazio tempo esperienza, Bollati Boringhieri, Torino, 2022 p. 116.

A partire da questa frase, mi piacerebbe allargare il campo di riflessione anche all’ambito delle discipline musicali. Credo che la musica sia “solo” nel tempo e nello spazio non vuoto, entro determinati limiti di frequenze e configurazioni strutturali umanamente percepibili. Altrimenti non si dà musica “per noi”.

Secondo Giacomo Marramao esistono due tracce di riflessione del pensiero occidentale a proposito della “questione del tempo”, che girano attorno al ritornello dell’antitesi filosofica tra “tempo autentico” e “tempo inautentico”; l’attributo “autentico” rimanda alla “durata interiore”, mentre l’attributo “inautentico” all’idea di “spazializzazione”.

Da una parte, non si dà esperienza umana del tempo vissuto, se non collegata a quella dello spazio; entrambe sono soggette a presupposti, per esempio “prima” o “dopo” e “sopra” o “sotto”.
A questo proposito si pensi alle lingue occidentali, alle quali è inestricabilmente legata la facoltà del pensare e ai “tempi” del verbo che determinano ogni possibilità del comunicare in maniera chiara e distinta su ogni argomento, dando forma a “scenari” interiori di carattere immaginativo: “come potremmo infatti, esperire gli eventi della nostra vita se non li collocassimo, non solo nella memoria o nella prospezione del futuro ma anche nel mentre che ci accadono, all’interno di una scena? Se non fossimo capaci, non solo in stato di sonno ma anche in stato di veglia, di sognarli?”. (ibidem, p. 125).
Questo l’argomento stringente per Marramao, che intravede nella spazializzazione del tempo la conditio sine qua non della nostra esperienza, fin negli eventi minimi del nostro quotidiano.

D’altra parte, la fisica contemporanea ha dimostrato che lo scorrere unidirezionale del tempo da un passato a un futuro, la cosiddetta “freccia del tempo”, dimora nella nostra percezione, ma non può essere considerata valida in senso assolutamente oggettivo.
La prospettiva basata sulla triade tempo-spazio-esperienza offre una profondità di campo che rende “visibile” il tempo percepito come una delle dimensioni dello spazio, complessivamente coincidente con la stessa estensione dell’esistenza.
In questo mi sembra consista, in estrema sintesi, lo “spostamento laterale” proposto da Marramao per affrontare “la questione del tempo” da un punto di vista filosofico, che risulti adeguato al mondo “nel quale ci accade di vivere”.

Credo che lo “spostamento laterale” di cui parla Marramao evochi proficuamente una forma di scostamento attivo dalla consueta attitudine affannosa all’inseguimento del tempo e determini effettivamente uno “spiazzamento”, un decentramento dalla più comune esperienza del tempo di carattere antropocentrico, dalla quale assistiamo a quel che accade. Allo stesso tempo dà luogo a qualcosa di razionalmente paradossale: laddove si attua lo “spostamento laterale” ci si appropria del tempo della vita nell’esperienza unitaria del nostro essere al mondo. Lo scorrere del tempo non è più una necessità di fatto alla quale siamo sottoposti, ma il modo di vivere nel quale prende forma istante per istante la nostra stessa esperienza vissuta. Da qui, inoltre, l’idea che la concreta esperienza del tempo spazializzato consenta di riappropriarsi del “tempo della vita”; ne saremmo ordinariamente espropriati a causa dello stile di vita contemporaneo, dominato dall’accelerazione e dalla fretta di “stare dentro i tempi”.

Da questa rapida sintesi ricavata dalla lettura, spero senza fraintendimenti, del testo citato, sorge una domanda: in quale tempo “vivono”, ovvero suonano, i musicisti?

La domanda apre l’orizzonte su una molteplicità a mio parere tanto ampia quanto feconda di prassi consolidate, antiche, moderne e postmoderne.
I musicisti vivono il quando e il dove di un “tempo di studio” e il quando e il dove di un “tempo performativo”. Le fluttuazioni del tempo musicale vissuto hanno intrinseche motivazioni stilistiche, interpretative e sociali. In particolare, la dimensione del concerto pubblico implica uno scenario sempre unico del tempo vissuto, che lega intimamente la produzione e l’ascolto in un unico evento di gruppo, il cui impatto artistico dipende tanto dagli esecutori, quanto dal pubblico. Può essere “catartico” o banalmente deludente. In entrambi i casi diventa occasione di emozioni, riflessioni, scambi, confronti.
Come si coniuga il tempo musicale della cosiddetta “musica colta occidentale” con il tempo della “musica commerciale” o con il tempo della produzione e della performance elettroacustica?
Che ruolo hanno l’emozione e la partecipazione affettiva nella ri-produzione/ascolto a bassissima o ad altissima fedeltà e nella produzione/ascolto dal vivo in una società altamente tecnologizzata come la nostra? Ricordo che oggi è possibile tanto imparare i primi rudimenti del leggere al pianoforte con un casco virtuale, quanto sperimentare il crepitio e il ribollire dell’umano durante l’esecuzione del Rach3 di Kissin e Noseda al Parco della Musica di qualche settimana fa.

Questi sono solo alcuni degli spunti di riflessione che propongo ai miei colleghi e ai miei studenti.
Per finire, un chiarimento utile per chi non mi conoscesse e dovesse pensare che sono contraria alla tecnologie informatiche: sono un’estimatrice della tecnologia e la utilizzo non da principiante da circa trent’anni; tuttavia oggi mi viene un sospetto: varrà anche per le nuove generazioni di musicisti il rischio che siano espropriate non solo del tempo musicale, ma della destrezza del corpo e del gesto tecnico che diventa arte? Qual è la differenza e il nesso tra ascoltare/vedere/produrre il gesto che attraverso lo strumento riempie di senso lo spazio-tempo nel quale si vive e la possibilità di ascoltarlo/vederlo riprodotto su uno schermo?
Qual è la differenza tra imparare a leggere la musica su un pianoforte o attraverso il casco virtuale, essendo le app (a pagamento) di quest’ultimo in grado di sostituire l’antiquata tastiera elettronica, se non ora a breve? Mi chiedo se chi grida ancora orripilato contro il pianoforte elettronico a parete, si sia reso conto degli sviluppi in corso: adesso “lo strumento” non occupa più neanche spazio, se non in una realtà virtuale “aumentata”.

Queste le sfide della contemporaneità al corpo e alla mente delle persone che corrono tutti i giorni, musicisti compresi, per stare dentro qualche immaginario tempo.
Bisognerebbe non farsi espropriare dei sensi, del gesto, della cultura, dell’ascolto e della produzione dal vivo, nonché delle emozioni.
Non facciamoci manipolare anche le connessioni sinaptiche legate alla manipolazione degli oggetti…per favore. Che ne sarà delle infinite possibilità di “tocco” su uno Steinway? Forse sarà sempre di più un’abilità per pochi alieni, che hanno dimenticato come mai si ritrovano ad usarlo?

PS: credo che al Rach3 abbiano dimenticato di togliere il coperchio dalla coda dello Steinway. Come potrebbe essere che, avendo venduto biglietti nel retropalco, in alto, non abbiano pensato a farlo?
Il pubblico talvolta ascolta e vive…oltre che acquistare…