L’identità nel bicchiere

Durante molti anni d’insegnamento nella formazione musicale superiore, ho avuto l’opportunità di confrontarmi con decine e decine di insegnanti-musicisti, dotati di ragguardevoli competenze tecnico-musicali, artistiche e pedagogiche: pianisti, compositori, cantanti, strumentisti di ogni tipologia; eppure, trovo che, nell’enorme sforzo sostenuto per passare dal «vecchio» al «nuovo», sia ancora largamente da colmare quello che vorrei chiamare il semi-vuoto della nostra identità musicale condivisa e consapevole – guardo con l’occhio di chi vede il bicchiere mezzo pieno, vale a dire con un certo ottimismo, animato dall’intuizione che qualcosa forse si sta muovendo per riempire il bicchiere. Ciò che manca ancora è la consapevolezza di appartenere ad una comunità accademica, ovvero la capacità di guardarsi dall’esterno come gruppo, per capire che cosa abbiamo messo in vetrina, per esempio sui nostri siti web, e chiedersi se quel che c’è rispecchia veramente l’esperienza, l’impegno, i saperi e la qualità delle prassi adottate.

È comunque legittimo chiedersi da cosa sia stata generata questa situazione.
Posso solo cercare di rintracciarne i motivi.
Credo che l’impegno profuso, da una parte nel processo di insegnamento-apprendimento e dall’altra nel governo delle istituzioni, solo parzialmente sia stato organizzato, reso pubblico, condiviso, discusso, rielaborato e «limato» dalla comunità accademica, in modo da «autenticarlo»: comunicarlo pubblicamente come consistente, veridico ed efficace.
In concomitanza, è innegabile una tendenza acceleratrice del mondo contemporaneo, sottrattiva e desertificante proprio nel campo della comunicazione in rete che dovrebbe essere ripensato per sostenere la memoria delle direttrici di sviluppo teorico, compositivo e interpretativo, soprattutto del Primo e del Secondo Novecento, e per incrementare la produzione musicale del nuovo.
Le grandiose innovazioni tecnologiche e l’estensione del desiderio di ricchezza rendono comprensibile l’accelerazione come caratteristica dello spirito dei tempi, ma portano in sé il pericoloso limite di rendere visibili i contenuti del presente come fossero privi di radici e di un’identità molteplice, ricca di connessioni e commistioni: abiti belli, ma vuoti e senza storia.
Alla base del semi-vuoto della nostra identità musicale pubblica ravviso dunque due motivi.
Prima di tutto la difficoltà a comunicare in maniera adeguata in rete, fuori dalla logica dettata dalla necessità di esporre locandine, verbali e avvisi, congiunta ad una certa acquiescenza all’idea che quel che si fa sia sufficiente, perché qualcuno si occupa del resto individualmente.
Purtroppo, però – e questo è il secondo motivo – nei contesti di appropriazione dei saperi specifici e dei processi decisionali, i giovani sembrano sperimentare una contrazione della dimensione temporale, lungo la quale masse d’informazioni inafferrabili e incontrollabili li raggiungono in tempo reale, costringendoli a rimandare ad un immaginario «poi» tutto ciò che andrebbe vagliato e sottoposto alla critica della logica e all’esercizio del pensiero.
Questo fenomeno sembra cancellare la coerenza e la memoria del sapere e del saper fare che ogni istituzione formativa dovrebbe poter trasmettere a gran voce.
Si badi che un’identità culturale priva di memoria, non solo non può rimanere aperta al futuro, ma rischia di cadere nell’oblio.

Il nostro ricco, complesso e variegato presente (musicale e non) oggi, può sembrare «tutto quello che c’è», addirittura privo di una lunga e vivacissima storia di scritture, tradizioni e pratiche di volta in volta approvate, contestate, realizzate, discusse, ostacolate o favorite, che, in ogni caso, rimangono, lo si sappia o meno, alla radice delle attuali direttrici verso il futuro.
La storia va avanti ed esclude coloro che rimangono attaccati a stereotipi ormai morti.